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Olio d'oliva
poemetto scritto da
Giulia&Gabriele
studenti dell’
Istituto Tecnico Agrario
Leopoldo II di Grosseto
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Un saggio signore di Uliveto,
paesino situato su una verdeggiante collina,
radunò intorno a sé tutti i bambini e rivolse loro un indovinello:
‘E' maestoso, dai rami fronzuti, dai frutti piccoli,
neri ed anche un po' violacei...’
‘ ... ma è facilissimo, gridarono in coro, è l'ulivo’.
‘Bene!
Allora ricordiamolo insieme con una bella favola..’.
Giulia e Gabriele :
"Questa avventura inventiamo per voi
e in rima adesso la cantiamo noi"
Giulia:
Dentro la serra della mia scuola
per l'ulivo giulivo e la sua sposa
ho costruito una grande alcova:
nel "plateau" confortevole, gran cosa,
un ulivino ho messo in terra nova.
Gabriele :
Ogni giorno controllo la sua vita,
lo annaffio, gli canto le canzoni.
Quelle che sempre per i bimbi buoni
Scriviamo con la penna e la matita.
Giulia:
E poi viene alla fine quel bel giorno,
che risoluto dice il grande olivo
"Sono cresciuto e alfine tutto intorno
mi sembra tutto il mondo più giulivo!’.
Era soltanto un tempo un nocciolino
E adesso invece come stava stretto! -
La chioma alzava in alto nel giardino.
Gabriele:
Tu non sei, mi capisci, una sequoia
e nemmeno una quercia assai frondosa
non puoi dormire dentro quel lettone
ma solamente in quel giallo vasone.
Giulia:
Rallegrati di stare nel vasone,
ci metti casa, diventi un alberone!
La terra, ben nutrita con "agriperlite", dà nutrimento alla piantina messa là.
Piantina:
Ma come sono bella,
c'è pur la coccinella,
ci sono i parassiti
che fanno da intercity.
Però faccio il capriccio,
perché non c'è il terriccio.
La piantina ormai cresciuta, una volta sistemata, ha la chioma diramata: foglie qua, foglie là, ma sta per diventare una vera pianta.
Piantina:
Nel cielo il sole brilla questa sera
e se Dio vuole non sarò più sola
come dentro la terra ogni viola
d’ essere insieme agli altri sempre spera.
Giulia:
In compagnia tu presto crescerai,
con buoni frutti non deluderai.
Tre anni per gli olivi sono passati, senza essere potati. Finalmente giungerà il momento dell'alleggerimento; perché troppi frutti non siano distrutti dall'intruso olivicida "Dacus Olea", si provvede alla raccolta dell'oliva europea.
Gabriele:
Succederà nel mese di Novembre
Porteremo al frantoio il gran raccolto
Come nel tino già finì Settembre
Che faccia anche l’olivo credo molto.
Olive:
Tranquillità di un tempo è ormai finita
per la nostra succosa e breve vita:
nella "bascula" ormai ci peseranno,
poi nelle presse un dì ci affogheranno.
Saremo le più belle tra le belle
Da questa terra andremo sulle stelle!
Giulia:
E’ necessario che dobbiate andare
se olio buono vi volete fare!
Nella "pressa" e nel "separatore"
Conquisterete tutto un altro odore.
Gabriele:
Nella gran "vasca di decantazione"
per l'acqua or si farà "depurazione"
Olive:
Belle e schiacciate tutte per benino,
ognuna prende adesso il suo trenino:
Tu "sansa" sei per bene diventata,
dopo essere stata assai pressata,
e tu invece in quest’acqua depurata,
sarai come si può riutilizzata;
Non so che cosa adesso ci faranno
per mangiarci col pane tutto l'anno.
Oh Dio! Si salvi adesso chi lo può!
Nel frangitore io proprio non ci sto!!
Tu, caro olio bello appena nato
sulle tavole sarai ben impalmato.
Olio:
Io sono diventato assai importante!
Come il poema di quel grande Dante.
Meglio crudo che cotto, è infinito
Il piacere che fa leccare il dito.
Gabriele e Giulia:
Il tuo viaggio alla fine è completato,
olio sei tu che olivo sei già stato.
Olio:
Allora me ne vado in tutta fretta
A insaporire il dorso alla "bruschetta".
Io prometto che adesso vado via,
viva l'olio d’oliva e così sia!
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Parole difficili
Alcova Talamo nuziale
Agriperlite Substrato di terriccio
Bascula Bilancia
Bruschetta Pane abbrustolito e condito con olio, serve a
saggiare le qualità dell'olio
Dacus oleae Mosca dell'olivo
Decantazione Metodo per separare le parti solide da quelle
liquide
Depurazione Eliminazione delle scorie
Frangitore Attrezzo per frangere le olive
Plateau Contenitore di semi messi a germinare
Pressa Attrezzo per comprimere
Sansa Prodotto che rimane dopo l'estrazione
dell'olio
Separatore Macchinario che separa l'olio dall'acqua
Talee Segmento di pianta messa a radicare
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... Racconti ...
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Romeo
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Gennaro di Jacovo
La stanza nel giardino
di Romeo
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Argos & Ruphus
Editori
Ubicumque es
Alpha
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“Vola, Romeo…!”
Lo aveva visto nella sua stanza appollaiato sopra gli sci.
I Rossignol.
Era rimasto lì un paio di giorni, dopo essere uscito dalla gabbietta celeste.
Qui era stato ospitato dalla sera del 25 di febbraio, domenica.
Erano usciti per una breve passeggiata in centro, quella sera.
Arrivati all’ingresso del garage del grande palazzone nuovo, prima del bar, avevano notato un piccione giovane fermo all’interno del vano.
Era l’imbrunire ed era strano questo fatto.
Che fare?
Gennaro si avvicinò, ma il volatile scese la rampa.
Era difficile prenderlo.
Aveva paura di fargli male.
Infine lo circondò con le mani,
Un’ala era ferita.
Sanguinava.
“Anna, dobbiamo portarlo a casa…”
“Certo…”
Velocemente tornarono verso la loro abitazione.
Entrarono in giardino.
Il piccione fu sistemato in una gabbietta piccola, così da favorire, con l’immobilità, la guarigione dell’ala.
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Gennaro sistemò dei cereali destinati a Xanta, la colomba di casa, ed una vaschetta d’acqua negli appositi contenitori della gabbia.
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La casa di Romeo era pronta.
Il colombo se ne stava buono.
Sembrava che la ferita fosse dovuta ad un colpo ricevuto, forse anche ad un colpo di arma ad aria compressa.
Le penne erano perforate e c’era una emorragia in atto che macchiava la regolare copertura grigio nera all’altezza della delicata giuntura alare.
Avrebbe bevuto e mangiato?
Sarebbe stato in grado di volare dopo i giorni necessari alla guarigione?
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Il piccione tubava, fermo, come se capisse la delicatezza della situazione.
Chiuso nella stanza, nel suo giardino, Romeo affrontò la sua prima notte.
La mattina successiva era tranquillo.
La ferita non sanguinava.
La sera precedente Gennaro l’aveva disinfettata spruzzando un liquido adatto sulla ferita e provocando l’irritazione del piccione.
L’operazione, semplice ed efficace, era stata evidentemente opportuna ed utile.
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Passavano i giorni e Romeo nella sua piccola gabbia se ne stava tranquilo e sereno.
Tubava con voce roca quando Gennaro avvicinava la mano con la vaschetta di mangime o l’acqua.
Se ne stava appollaiato in alto, sopra due barrette di plastica.
Quella era una gabbietta buona appena per un canarino, e lui era un aereo più grosso.
Ma meglio così, l’ala doveva starsene ferma.
Si sarebbe rimarginata meglio la ferita.
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Le giornate si facevano lunghe e l’aria era più mite.
L’ala era guarita.
Tornato dalla biblioteca, dove amministrava i beni librari d’una scuola, i cui docenti ed i cui alunni consideravano i libri medicine amare più che fonte di informazione o di divertimento, Gennaro si vestì per una escursione in bicicletta.
Tornato a casa, dopo i soliti trenta chilometri verso il mare di San Rocco, entrò nella stanza di Rocco.
Lo trovò bene, come al solito.
Aprì il tetto della gabbia.
I muscoli delle ali dovevano muoversi meglio, la gabbia era ormai troppo stretta.
Romeo saltò in aria, vigoroso, battendo le lunghe ali.
Con le remiganti si arrampicò verso il tetto, fermandosi sugli sci.
Per quasi un giorno rimase così, semilibero.
Poi un pomeriggio saltò sulla spalla di Gennaro e uscì.
Si fermò sul tettuccio, dove si posavano le tortore cui Gennaro dava pane o biscotti.
Quindi volò in alto, dirigendosi fra le case verso il palazzo grande dove lo avevano trovato quasi diciotto giorni prima.
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Romeo, Romeo …
Dove sei?
Sei tornato alla tua casa?
Vola alto, sollevati sopra questo mondo, guardalo dall’alto d’un cielo sereno.
Nessuno ti colpirà, ti ferirà.
Mai più.
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Perché se lo facesse tutto il mondo crollerebbe a pezzi, sotto il peso della stupidità del Grande Distruttore.
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La spina di Faustino
Era quasi l’ora del tramonto.
Il cielo era stato sereno per quasi tutto il giorno, ma adesso nuvole enormi stavano ammassandosi a oriente, spinte da un forte scirocco umido e carico di sabbia del deserto.
Si preparava un forte temporale.
La città si preparava alla sera ed alle ore della notte.
Sembrava una giornata ordinaria, d’una primavera tiepida e piena di rondini.
La gente si era riversata nelle strade, prima, ma adesso tornava alle attività consuete.
Succedeva così quando c’era una esecuzione sulla collina.
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Un gruppo di persone, una donna giovane e qualche altro parente, forse, guardavano in su intorno al condannato.
Gemeva e aveva sete.
Era legato e inchiodato a due pali di legno.
Ad un tratto alzò la testa.
In quel dolore grande, in quel bruciore che contrassegna le ore dopo un grande disinganno, in quel fastidio fisico per le frustate e l’umiliazione, una cosa più d’ogni altra lo torturava.
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Sulla fronte, che tante volte la mamma gli aveva accarezzato e che lui stesso aveva asciugato dal sudore, d’estate, sentiva qualcosa che più d’ogni altra lo pungeva.
Una corona di spine gli circondava i capelli lunghi e castani, ramati.
Una spina gli trafiggeva la fronte, accanto alla tempia destra.
E aveva sete.
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Tanta sete, e chissà perché.
A volte si ha sete e fame solo perché si aspetta che qualcuno venga a darci qualcosa.
A parlarci.
Chinò il capo.
Aspettava una fine che aveva previsto.
Il suo lavoro stava per culminare.
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Quando, mentre guardava in basso i soldati giocare a dadi e qualcun altro disperarsi per lui, vide con la parte superiore dell’occhio qualcosa muoversi sopra la fronte.
Un passero si era fermato leggerissimo sopra la corona di spine.
Sorrise, il dannato.
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Ad un tratto il volatile afferrò con il becco la spina che tormentava più d’ogni altra cosa il giovane legato alla croce e cominciò a tirare, finché il legno si staccò dalla pelle ed una goccia di sangue gli colorò il petto…
“Faustino … ti chiami Faustino …”
“Si…”
cinguettò il passerotto …
“Da oggi sarai un pettirosso, in ricordo di me…”
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“Si… ma ci rivedremo …”
“Certo … tu potrai vedermi sempre, Fausto …”
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In quel momento il giovane non si sentì più abbandonato da nessuno e si riconciliò con il Padre.
Gridò.
Scoppiò un tuono, preceduto da un bagliore e la donna sotto la croce gridò il suo nome …
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Poi si sentì il frullare delle ali del pettirosso che accompagnava il giovane nel Suo Regno.
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Forse che tutto si era svolto come in una dimensione immaginaria, astratta e virtuale?
Era davvero esistito un paese sulle rocce con un piccolo fiume
ed una famiglia così piena di fascino da fargli dimenticare tutto il mondo?
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L’avrebbe cercata per sempre, ancora, èis aiòna ...
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Alberi e libri
Soffiava un vento fresco e la valle dorata era tutta mossa come un grande mare di erba e rami.
Ramon oscillava con il suo fusto alto e possente.
Era un forte ontano, nel Cànada lontano, e su di lui si posavano i pettirossi, le gazze, le aquile dalla testa bianca.
Sotto di lui passavano castori sempre attenti a qualche lavoro di consolidamento idraulico e lontre, sulla sua corteccia si grattavano i grandi, maestosi gritzly.
Un lago azzurro in fondo alla valle ospitava salmoni e lucci, accoglieva lontre e castori solerti.
Una calma silenziosa avvolgeva la valle verde e popolosa.
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Un giorno Ramòn sentì qualcosa di strano.
Un rumore sordo che si avvicinava sempre più e faceva fuggire tutti quegli Animali che mai avevano avuto tanta strana paura, davanti a nulla, e ora arretravano al cospetto di un suono così inascoltato e misterioso.
Passarono alcune settimane.
Poi al suo tronco si avvicinò una bestia goffa e rossa.
Sbuffava e urlava, con quel suono sentito prima e moltiplicato ora per mille.
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La bestia lo abbrancò, lo strinse quasi alla base del tronco ed una lama iniziò a roderlo, a tagliarlo, fino a quando Ramòn non cadde con un urlo lungo e straziante, schiacciando la bestia rossa.
Era caduto sopra il suo assassino, per un suo errore o per volere del fato.
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Passarono diversi giorni e Ramòn si sentiva ancora vivo.
Solo che non vedeva più il suo lago e l’aquila non si posava più sulla sua chioma.
I pettirossi non lo abbandonavano.
Non si sentiva abbandonato.
Ma gli mancava il vento, l’aria, il cielo ed il suo lago sereno, azzurro, a tratti grigio o blue.
Poi un mattino tornarono le bestie rosse di ferro e lo strinsero, lo tagliarono in mille pezzii.
Fu imballato e sistemato su enormi rimorchi, poi portato al lago e gettato nell’acqua.
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“Ramòn …”
Si girò piano e vide un grosso castoro nuotargli accanto…
“Non sapevo che tu potessi muoverti … Ramòn …”
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Lentamente, a pezzi l’albero avanzava spinto dal vento.
Provava una nuova sensazione, come di una persona sola che fosse divenuta mille, o forse più.
Avvertiva e sentiva con tutti i suoi frammenti, vedeva e ascoltava una realtà che si era moltiplicata.
Cosa era mai successo?
La morte che gli avevano dato si trasformava in mille vite.
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Non era più il rifugio del pettirosso e della lontra, dell’aquila e della gazza.
Era un gruppo compatto di grossi tavoloni che si dirigeva verso l’emissario del lago.
Giunse all’imbuto e si diresse avanti, lungo il grande fiume.
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Sulle sponde vedeva tanti Ramòn, uguali a come era lui prima.
Lo guardavano stupiti, quasi non lo riconoscevano.
Non poteva fare altro che osservarli, pieni di vento e di azzurro, mentre ora lui era solo frammenti di albero nel fiume.
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Passarono i giorni e giunse in un tratto del fiume che si allargava, pieno d’altri tronchi e tavoloni.
Si confuse con altri colleghi, conobbe gente nuova, ma restava uno, pur in tanta complessità.
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“Scusa …mi daresti una mano? …”
“Certo … tu chi sei?”
“Sono Ramòna … e tu?”
“… Ecco … io sono Ramòn …”
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Fu così che si conobbero, Ramòna e Ramòn, due pezzi d’albero capaci di aiutarsi, di darsi una mano anche le le mani non le avevano più.
Due alberi senza rami né foglie, a dire il vero anche senza voglie.
Si tennero vicini, nell’acqua immobile della rada, fino a quando non li arpionarono e non li sistemarono su un grosso camion giallo.
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“I due avevano deciso di stare insieme. E quello fu in un certo senso il loro viaggio di nozze … o viaggio di cozze, visto che erano stati in ammollo per mesi.
Il loro legno era sodo e vigoroso.
Durante il viaggio si giurarono di rimanere insieme sempre.
Ma ormai non avevano radici, non erano alberi con una dimora stabile.
Niente di peggio, per un albero, che essere fatto a pezzi.
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Dopo un lungo viaggio giunsero in un posto ampio e assolato. Rumoroso.
Furono presi tutti e sistemati all’ingresso d’un enorme capannone.
Grosse bestie rosse uguali a quella che li aveva tagliati e separati dalle radici li afferravano e li portavano dentro il capannone.
Qui venivano presi uno per uno e tagliati in tavole regolari.
I frammenti che cadevano a terra erano ammucchiati in un angolo e caricati su altri camion.
Ramòna e Ramòn, sistemati e ben ridimensionati in altri pezzi, furono caricati su un camion blu e portati lontano.
Un ontano che se ne va lontano …
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Giunsero che era notte.
La mattina dopo si ritrovarono in un grande piazzale .
Si sentiva sempre quel rumore assordante.
Animaletti pallidi con guantoni e occhiali, con orecchie tappate, li afferravano con le loro bestie rosse e gialle, più piccole delle prime.
Dopo qualche tempo vennero portati dentro.
Di nuovo li fecero a pezzi e li unirono poi formando organismi più complessi.
Li verniciarono e li imballarono.
Ramona così venne ad essere separata da Ramòn.
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Ancora un lungo viaggio la attendeva.
Infine giunse davanti ad un fabbricato ampio.
Venne portata in una sala ampia, con quattro grandi vetrate ed un muretto grigio con un mandarino da guardare ogni tanto.
La misero accanto ad un disegno raffigurante un cavallo.
Alla sua sinistra, una grande bandiera a tre colori.
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Era sola.
Era uno scaffale di bilioteca.
Vuoto.
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Entrò ad un tratto una persona trasandata con un altro tizio
Messo quasi peggio.
Avevano i capelli grigi e parlavano con grande seriosità, quasi con sussiego.
“Qui metteremo la Treccàni … certo …”
Diceva uno.
L’altro annuiva, sussiegoso.
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Era quasi mezzogiorno, quando la goffa porta di metallo si spalancò.
Entrarono un paio di persone che scaricarono grossi pacchi.
Poi i pacchi furono aperti e i tizi scaffalarono i grandi volumi nuovi e odorosi di stampa.
Una enciclopedia tanto ingombrante e pesante quanto bella da vedere.
Marrone, con le scritte oro in brossura.
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Chiusero poi la pesante porta e Ramòna restò sola sotto il peso grande dei libroni.
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Ma era forte e reggeva molto bene.
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Peccato fosse cos’ sola, e il ricordo del suo Ramòn non sempre bastava a tenerle compagnìa.
Gli alberi sanno essere soli, restare fermi, eppure si muovono al vento e possono guardare molto lontano …
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... “Ramòn ”
Scappò detto a Ramòna …
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“Dimmi ... Ramona ...”
La voce veniva da uno dei volumi, il XXIX REH ROMANI della Grande Enciclopedia Treccàni.
“Zitta, Ramòna, per carità, o mi sistemano in qualche altre stanza …Mi hanno trasformato in carta, da quel mucchio di trucioli che ero, e sono capitato ancora con te … sarài il mio sostegno, Ramòna ... ”
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“Si … Ramòn … saremo gli alberi più istruiti dei dintorni ... ”
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In quel momento nel piccolo spazio verde davanti alla biblioteca di Ramòn e della sua compagna si sentì un usignolo che cantava una canzone bellissima, intrisa d’una struggente e allegra malinconica, sorridente felicità.
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Ramona e Ramòn strinsero pagine e legno e fecero di quella biblioteca ospitale il loro nido ritrovato.
“Si … metteremo qui le nostre radici …”
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Disse Ramòn e frullò le pagine profumate di stampa come fossero rami fronzuti e foglie leggere e fruscianti …
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domenica 23 marzo 2008
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